Gli sgomberi dei campi rom sono da tempo una triste tradizione della cronaca milanese. Pubblichiamo una testimonianza di Basilio Buffoni, socio Todo Cambia, che ha partecipato allo sgombero del campo di Redecesio avvenuto il 22 ottobre scorso.
Ho partecipato per la prima volta allo sgombero di un “campo rom”. Quello di Redecesio, comune di Segrate, a poche centinaia di metri da via Rubattino, il luogo di provenienza di tutti gli sgomberati di oggi. E probabilmente lo sgombero più noto e più drammatico.
Ci sono finito per caso; rimasto a casa fino a più tardi del solito, ricevo un sms e poi una telefonata da una delle maestre che hanno bimbi rom in classe; avendo a disposizione un furgone più spazioso di molte altre auto, mi sembra ragionevole che mi chiedano una mano per spostare un po’ di suppellettili e vestiti dal campo sgomberato a qualche altro posto. Non ho impegni di lavoro impellenti, e vado.
E’ tutto triste. E soprattutto sono tutti tristi: gli sgomberati, naturalmente, i volontari che cercano di dare una mano, i carabinieri, che hanno le facce di chi vorrebbe essere in qualsiasi altro posto piuttosto che lì.
Per fortuna è bel tempo, anzi è un tempo splendido, non freddo, asciutto. E i sacchi di roba, di effetti personali, di vestiti, sono tutti lì belli imballati, splendono al sole insieme alle valigie di recupero, alle borse sportive usate, agli zainetti colorati per la scuola.
Il primo sgomberato a cui parlo mi dice che è contento di aver avuto un giorno di permesso dal lavoro per essere con la sua famiglia mentre c’è lo sgombero; lavora in un cantiere di demolizioni poco distante, <Lavoro di merda, solo 6 euro l’ora. Ma mi hanno dato il permesso>.
Trovato il furgone – non è l’unico mezzo, ma forse è il più spazioso -, bisogna trovare un posto dove portare i bagagli: si trova il retrobottega di un’erboristeria, si fa un giro e poi un altro.
I carabinieri si domandano dove andranno i rom, e ce lo domandano: non sembra esserci un intento persecutorio, sono curiosi e umanamente preoccupati; speriamo abbiano un posto dove andare, visto che abbiamo dovuto mandarli via.
Parlo con il maresciallo: mi spiega che è giusto mandare via i rom, perché non si può lasciarli in una proprietà privata; mi sembra voglia farmi credere che è stato il proprietario a chiedere lo sgombero, preoccupato di eventuali responsabilità se qualcuno si fa male. Gli dico che sì, effettivamente ogni tanto qualcuno si fa male (ma non ho presente che alcun proprietario del terreno o del capannone ne abbia avuto problemi). Capisco che ha bisogno di dire a sé stesso, più che a me, che fa una cosa giusta.
Mi dice che è una brutta giornata. Conviene con me che per alcuni è più brutta e per altri, per me e per lui, ad esempio, un po’ meno brutta. Ma anche rispetto agli sgomberati si può trovare qualcuno che sta peggio, ad esempio in Africa, dice. Gli dico che non c’è bisogno di andare così lontano, basta pensare a Srebrenica. Mi accorgo che non sa cos’è Srebrenica. Mi domando se è giusto che un militare italiano quarantacinquenne non sappia cos’è successo a Srebrenica. Forse non è giusto.
L’aria è sempre di più quella di una commedia triste e inspiegabile. Ognuno fa la sua parte, con ragionevole dignità, senza il minimo entusiasmo. Magari il maresciallo ha un furgone e se lo chiamassero quando non è in servizio verrebbe qui, come ho fatto io stamattina, a trasportare masserizie che i suoi colleghi in servizio quel giorno costringono qualcun altro a spostare qui e là nella periferia milanese. Un bambino fa un gestaccio ai carabinieri, e loro sorridono con simpatia che sembra vera. La mamma dice al bambino con serietà che non c’è da prendersela con loro, che è il loro lavoro, e che gliel’ha detto qualcuno che li comanda. Lo dice in italiano, e quindi forse è a beneficio nostro. Ma d’altronde è la sua parte in commedia.
Cominciamo ad accompagnare qualcuno degli sgomberati. Naturalmente non è semplice tenere insieme le persone con le loro cose, le loro valigie. Portarli da qualche parte dove possano fermarsi. Mi spiegano sotto voce di lasciarli in un parcheggio sotto la tangenziale, che poi da lì vanno per conto loro senza farsi notare in un altro campo per il momento non sotto sgombero.
Porto sacchi e valigie e una signora con un bimbo piccolo, e torno per un altro giro con altra roba ed altre persone. Quando arrivo al parcheggio sotto la tangenziale, l’unico momento – per me – di tensione. C’è una macchina dei vigili, e alcuni strani personaggi che fanno come se fossero lì per caso. Mi fermo all’ingresso del parcheggio per capire cosa fare. Arriva un vigile e – nel deserto totale (a parte quattro rom sgomberati dieci sacchi e sei valigie) – mi dice di spostarmi, non vedi che stai bloccando il traffico: in una periferia deserta c’è una macchina che vuole entrare proprio in quel momento in quel parcheggio. Ci sono due sulla macchina. Mi sposto. Scarichiamo.
Capisco che i baraccati che stanno poco distante da lì non vogliono nuovi ospiti; più sono, più aumenta il rischio di uno sgombero. Discutono in romeno; arrivano all’accordo di accettare una famiglia, non di più.
Passa un camioncino della nettezza urbana: l’hanno chiamato i vigili per buttar via la roba degli sgomberati, se la abbandonano lì?
Arriva una pattuglia di altri vigili, in moto. Ci dicono che non conviene che stiano lì, se no al più tardi li sgomberano daccapo stasera; che trovino un posto migliore. Parlano con una volontaria – che si presenta parlando di padri somaschi -; mi fa sorridere, è piccolina, un po’ scricciola: i padri somaschi me li sono sempre immaginati grandi e grossi, svolazzanti, un po’ rugbisti ecclesiali. Mi sembra che i vigili siano interessati soprattutto a sapere se il comune di Segrate sgombererà altri insediamenti, oltre a questo di Redecesio: piccolo spionaggio tra comuni confinanti, più che accanimento antirom.
Si discute, i volontari chiamano le loro “centrali”, chiedono alle famiglie dove vogliono andare. Si trovano soluzioni, se così le si può chiamare.
I vigili vedono che ricarichiamo le macchine e se ne vanno. Se ne vanno i due che avevano sentito la necessità di parcheggiare proprio lì. Resta solo uno che parla al telefonino, ci guarda e non ci guarda.
Giocano, giochiamo, a guardie e ladri. Vado dal tipo con il telefonino e glielo dico. Gli chiedo se è della polizia o dei vigili, e che è inutile che facciamo finta, ci dica cosa dobbiamo fare e noi vediamo cosa possiamo fare. Ma che comunque ce ne andiamo. Lui fa il trasportatore, mi dice, sta aspettando che gli dicano dove andare a fare una presa. Può darsi: ma quando gli dico se sa chi erano quei due in macchina esagera. Mi dice che sono una coppia. Irregolare.
Che si apparta in un parcheggio completamente aperto, a mezzogiorno? E lui come lo sa? Qualcuno poi mi spiega che sono tutti vigili, o poliziotti, in borghese: poliziotti del quartiere, che hanno sentito per radio che stava succedendo qualcosa.
Ce ne andiamo. Se ne va anche quello con il telefonino.
Con una delle famiglie andiamo in un altro comune dell’hinterland, in una zona più di campagna, vicino ad una cascina diroccata. Erano stati qui mesi fa, mi spiegano. Entro in una stradina sterrata, non c’è nessuno. Hanno messo una specie di spartitraffico di traverso sulla stradina, così non si può entrare con la macchina, o con le roulotte. Arriva un tale, si salutano. Penso che sia un rom di quelli che stanno qui. Non è così: è un passante. Pensionato con cane, che va camminare per la campagna? Spacciatore anzianotto di periferia? Chissà, forse tutt’e due le cose insieme.
<Ci sono zingari?> <Tranquillo, due o tre famiglie> <Ma sei sicuro?> <Li conosco, sono tutti miei amici>.
Il mio passeggero mi aveva spiegato, in macchina: da soli non vogliamo stare, è troppo pericoloso. Ma non vogliamo stare con i marocchini …
Il mio primo sgombero è finito. I miei amici che ho portato nella loro nuova residenza sanno che per loro non sarà l’ultimo.